Julián
Probabilmente Sandra non sarebbe venuta al nostro appuntamento dopo quello che era successo l’ultima volta. Io al suo posto avrei fatto così. Perché avrebbe dovuto voler vedere qualcuno che l’aveva ingannata e messa in pericolo? Nonostante questo, avevo l’obbligo di farmi trovare al solito posto nel caso si fosse decisa. L’unica cosa che potevo fare era mostrarle il mio profondo disprezzo verso me stesso.
Non scesi dalla macchina: non volevo vedere la faccia della cameriera della gelateria prima del tempo. Sebbene non volessi darle importanza, non potevo evitare di farlo. Non possiamo evitare di vedere, sentire, provare simpatia o antipatia per le persone che ci passano davanti anche solo per cinque minuti. Non possiamo essere morti prima di esserlo davvero, per quanto lo desideriamo. Così, quando sentii le ruote del motorino di Sandra che avanzava sulla ghiaia, suonai appena il clacson, solo per richiamare la sua attenzione. Il cuore mi sobbalzò pericolosamente per la felicità.
Sandra parcheggiò e mi venne vicino. Aprii la portiera per farla entrare.
«Non c’è posto dentro?» mi chiese.
«Mi indispone quella cameriera. Mi guarda come se fossi un pervertito.»
Sandra rise di malavoglia. Aveva il viso smunto, era dimagrita perlomeno di due o tre chili e non mi veniva in mente un altro posto in cui portarla perché mangiasse qualcosa. Mi fidavo ad andare solo nel bar dove pranzavo di solito e in quello del Faro, perché in qualsiasi altro posto avremmo corso il rischio che ci vedessero insieme.
«Ma a pensarci bene ho fame», dissi. «Mi prenderei un bel panino caldo e una fetta di torta al cioccolato. Qui li fanno come da nessuna parte.»
«Come vuoi, io non ho fame.»
Mi tranquillizzò il fatto che ci sedessimo al nostro solito tavolo accanto alla finestra. Dava un’aria più normale all’incontro.
«A quanto pare i norvegesi non hanno il frigorifero molto pieno.»
«Perché dici questo?» mi chiese mentre prendeva controvoglia il menu plastificato. Sapevamo a memoria cosa facevano in quella gelateria, ma ci soffermavamo sempre a lungo sul menu mentre parlavamo.
«Le donne incinte ingrassano, non dimagriscono.»
«Sto bene.»
La cameriera ci interruppe. Mi guardò con la solita ostilità.
«Per me un caffè e per la signorina un panino caldo con pane integrale e prosciutto, una fetta di torta al cioccolato e un frullato.»
Sandra non voleva la torta: la cameriera cancellò l’ordinazione e le lanciò uno sguardo pieno di comprensione.
«Ti stanno succhiando il sangue. Se continui a stare in quella casa finirai per ammalarti», le dissi.
«Non è questo, è che sono nervosa. Anzi, nervosa non è la parola giusta. Sono inquieta, in attesa.»
«In attesa di cosa?»
Sandra si zittì. La cameriera ci portò le tovagliette di carta e le posate.
«In attesa. Ho l’impressione che la mia vita, la mia vera vita, debba iniziare da un momento all’altro. Questo viaggio è stato molto importante per me. Credevo che sarei rimasta stesa su una sdraio tutto il tempo, e invece guarda...»
Non le prestavo molta attenzione. In realtà stavo pensando a Sebastian, a come avrei potuto fare per localizzare casa sua senza dover utilizzare Sandra.
«Il cagnolino sta bene», disse lei improvvisamente.
Mi diede fastidio metterci qualche secondo per capire di che cagnolino stesse parlando. Lei mi guardava con i suoi occhi fra il verde e il marrone ben aperti. Erano diventati più grandi e avevano perso un po’ della loro allegria, ma avevano guadagnato in intensità. Il cagnolino ci ricordava la mia malvagità. Ero così concentrato sulla piega che stavano prendendo gli eventi che vidi comparire sulla tavola ciò che avevamo ordinato come se si fosse materializzato lì per magia.
«E come lo sai?»
Continuava a guardarmi, dandomi il tempo per ricordare e riprendere il filo. Stando a quanto mi aveva raccontato Sandra, l’Anguilla si era portato via il cane la sera stessa della festa e le aveva anche chiesto di uscire insieme.
«Non dirmi che ti sei vista con quello, con l’Anguilla.»
Annuì e il suo sguardo si trasformò.
«Si chiama Alberto», puntualizzò mordicchiando svogliatamente il panino.
«D’accordo, Alberto.»
«Mi è venuto a prendere a casa dei norvegesi e mi ha portato il cane perché lo vedessi. Era cicciotto, sembrava non mancargli niente.»
«E questo ti fa credere che quel tizio sia a posto?»
Tizio a posto? Stavo iniziando a parlare come Sandra. Mi sentivo strano a parlare così, era come se mi stessi trasformando in un’altra persona.
«Da allora non l’ho più visto. Non si è più fatto vedere, non mi ha lasciato un biglietto, niente», rispose malinconicamente.
A quel punto non mi ci volle nemmeno un minuto per capire. Gli occhi le brillavano pericolosamente.
«Non hai più paura.»
Si strinse nelle spalle. Aveva bevuto il frullato e si era limitata a dare qualche morso al panino.
«Le cose sono cambiate. Quella gente ormai non può più farci del male. I meno vecchi vivranno al massimo altri cinque anni.»
Dovetti alzare un po’ la voce per farla reagire. La cameriera mi sorvegliava da dietro il bancone: evidentemente pensava a una lite fra innamorati.
«Le cose sono esattamente uguali, se non peggiori, ed è proprio perché sia io sia loro abbiamo un piede nella fossa che bisogna regolare i conti.»
Guardò l’orologio: ne aveva uno grande, con un grosso cinturino di cuoio azzurro, e aveva delle bellissime mani, ma non delicate e deboli. In Sandra non c’era nulla di debole, eppure adesso era a un passo dall’esserlo.
«Non capisci... Alberto non permetterà che mi facciano del male.»
«E come mai, se posso saperlo?»
«Quando eravamo al porto mi ha baciata.»
Ecco il bandolo della matassa. Aveva bisogno di dire a qualcuno che si era innamorata. Preferiva perdonarmi piuttosto che non poterlo dire.
«Capisco. E tu?»
«Ho risposto.»
«E cosa hai sentito?»
«Che tutto questo è la cosa migliore che mi potesse capitare. »
«Tutto? Adesso sì che abbiamo un problema», replicai, anche se lei non sembrava ascoltarmi.
«Ma non l’ho più visto, e non so dove trovarlo. Perché mi sta facendo questo?»
Fino a quel momento Sandra mi aveva preoccupato, ma adesso mi faceva paura. E soprattutto mi sembrava un’estranea, lontana da me, dai nostri obiettivi. Le dissi che probabilmente quando lo avrebbe rivisto sarebbe tornata in sé, si sarebbe resa conto che era stata tutta un’illusione. Le dissi che presto avrebbe trovato un uomo che la amava davvero e che forse, dopo tutto quello che aveva passato negli ultimi tempi, avrebbe visto il padre di suo figlio con altri occhi. Le dissi che l’Anguilla non era la persona adatta a lei, anche se si chiamava Alberto e l’aveva baciata. Le dissi che si era approfittato della sua solitudine, del suo bisogno d’affetto. Ma Sandra non mi ascoltava.
Che cosa provava veramente Alberto per lei? Magari, nonostante il poco sangue che gli scorreva nelle vene, si era innamorato davvero. Solo un idiota non si sarebbe innamorato di quel cuore caldo e grande, di quello sguardo trasparente, di quella sincerità, di quella forza. Era infinitamente meglio di tutti noi, e il fatto che l’Anguilla potesse esserle entrato così dentro era preoccupante, perché dall’amore è difficile difendersi. Era riuscito ad avvolgerla ancora di più nella ragnatela. Se Sandra fosse entrata a far parte del gruppo perché si era innamorata di uno di loro, sarebbe stato molto difficile tirarla fuori da lì.
Da quell’incontro me ne andai con più angosce e con più sensi di colpa di quanti ne avessi mai avuti. Se non mi fossi comportato come un cretino, Sandra non si sarebbe sentita così indifesa e non si sarebbe buttata nelle braccia di nessuno.